19 aprile 2012

I riti della settimana santa a Scicli

Addolorata di Santa Maria la Nova
La settimana che precede la Pasqua è scandita da processioni ecelebrazioni varie.
Il pomeriggio della Domenica delle Palme,viene portato in processione il simulacro dell'Addolorata di Santa Maria la Nova, ancora oggi al centro della venerazione di tutta la cittadinanza, è legata ad un culto antichissimo che si fa risalire a S. Guglielmo.
Una gran folla di fedeli, in doppia fila, silenziosa, in atteggiamento orante, recando torce accese col collarino di carta briglia, a riparo della fiammella, segue La Pietà; il gruppo statuario è formato da una scultura lignea, la Madonna, adagiata, col capo reclinato, i capelli sciolti ricadenti sul petto, con una veste a fiori, una camicia dorata e un mantello blu damascato che sorregge sulle ginocchia il Cristo deposto; l'affiancano due pie donne, ritte in piedi e, accanto, una croce di legno ricoperta da lamine d'argento. Un tempo, e fino a metà del secolo scorso, non era raro vedere qualche penitente, il busto nudo, sotto un cappotto di abracio, il capo cinto di un ramoscello spinoso, procedere battendosi le spalle, a ritmo, con una ciambella di corda di cànape". (B. Cataudella, "Scicli. Storia e Tradizioni").



Il Martedì Santo èl a processione dell' Addolorata di S.Bartolomeo, " Lu veru Cravaniu" , rito introdotto più recentemente, quasia sottolineare la rivalità fra le due Confraternite. 

Molto sentita è la "funzione " del Giovedì Santo, con l'allestimento, nelle cappelle delle varie chiese, dei "Saburcara", i Sepolcri, che devono essere visitati, come vuole la tradizione, in numero dispari. I più anziani ricordano che un tempo i due simulacri, del Gesù alla colonna e del Gesù al "timpone", venivano trasportati, in chiassose scorribande, l'uno fin su, alla Balata, l'altro fino al Calvario, sotto il Convento della Croce; la festa continuava poi anche durante la notte, "... con una processione silenziosa, in un clima di mestizia, quale si conveniva ad un rito di Passione, durante la quale si cantava il Dies illa". (B. Cataudella, op.cit.)



Addolorata dell' Ospedale
Assai suggestiva è la sera del Venerdì Santo, quando viene portato in processione un bellissimo simulacro della Madonna Addolorata, detta "dell'Ospedale" perchè già custodita e venerata nella demolita chiesetta dell' Ospedale.

Vestita con il tradizionale abito nero e una spada che le trafigge il petto, era detta anche Madonna degli artigiani, poichè un tempo si avvicendavano alle stanghe.
 
Questa Madonna, venerata attualmente nella chiesa di San Giovanni, attira un flusso continuo di fedeli nei quali accende sentimenti di autenti capietà religiosa, testimoniata dalle numerose Associazioni che in suo nome operano e diffondono il culto Mariano. 

La processione inizia, per l'appunto, dalla chiesa di San Giovanni e, in una atmosfera di grande raccoglimento, si avvia verso la chiesa di Santa M. la Nova dove altri fedeli già attendono con il ferculo del "Cristo Morto", custodito dentro una cassa di vetro che viene posto a capo della processione; a seguire, completano il gruppo, la statua del "Cristo al Calvario e Giudei" e un "Ecce Homo"; così composta la processione, fra canti e preghiere, percorre le vie principali della città, fino a tarda ora.



Da questo momento la città sembra vivere con il fiato sospeso, in religioso silenzio, l' arrivo del sabato allorquando, a mezzanotte, con la funzione della "Scisa a Cruci " , "scattìano", (si sciolgono) le campane, dopo il lungo silenzio che dura dal Giovedì Santo e, in una gara festosa, risuonano, prima quelle della Matrice poi, nell'ordine, tuona, nella valle, il campanone della chiesa di San Bartolomeo e, ultime a quietarsi sono quelle di Santa M. la Nova, perchè il rito di Pasqua appartiene ad essa, perciò qui si celebra con maggiore solennità. 
E' qui che, schiere di ragazzi attendono con impazienza la fine della funzione del Sabato Santo e insieme ad una folla traboccante da ogni navata della chiesa accolgono, fra le acclamazioni di esultanza, la statua del Cristo Risorto, al grido di "Gioia".
Tutta la Comunità sciclitana vive lo spirito di contrizione che promana dai Misteri contemplati nelle celebrazioni e nelle funzioni della Settimana Santa, in attesa della Rinascita prefigurata dal Cristo Risorto, l' "Uomu Vivu" che tutti gli sciclitani, e non solo, si apprestano a festeggiare già dalle prime ore della mattinata del Giorno di Pasqua.
E' la "religiosità" dell'intera Comunità, nella sua multiforme compagine, che promana dalle lunghe e partecipate processioni, senza nascondere o sottacere, lo spirito di "appartenenza" a questa o a quella Parrocchia o Confraternita.
Anche questo (ed altro ancora), è Storia, Folklore e Tradizione, perciò tutte le manifestazioni, ciascuna nella sua specificità, merita di essere valorizzata e " assunta" nella vita socio-culturale della Comunità cittadina . 
Con questa motivazione la Regione Sicilia ha inteso accogliere," I riti della Settimana Santa a Scicli" fra i Grandi Eventi, ed inscrivere la manifestazione così denominata nel R. E. I. , il Rregistro delle Eredità Immateriali. 

Pasqua a Scicli: "L'uomu vivu" o "Gioia"

"U gioia"
La Domenica di Pasqua, i festeggiamenti hanno inizio con la processione, per le vie della città, del "Venerabile" , l' Ostensorio portato da un sacerdote, sotto un grande baldacchino a quattro aste. In capo alla processione, un pesantissimo "stunnardu", il tradizionale stendardo di seta azzurra " ... con la stella ricamata in oro ed una grossa nappa, in punta, a toccare terra, appeso ad una lunga asta, che si flette ad arco viene portato,legato alla cintola, da giovani, che danno così prova del lorovigore. Procedono a passi misurati, l'asta infilata in un coppo dicuoio, appeso sul davanti, con una cinghia stretta ai fianchi, il busto piegato all'indietro, un braccio steso, a reggere l'asta; la punta dello stendardo a strisciare per terra". ( B. Cataudella;Scicli. Storia e Tradizioni).
Il momento "spettacolare" della festa è quando, al rientro dello "Stunnardu" , (verso le ore 13.00), una folla di giovani, facendo ressa, sollevano sulle braccia la statua dell' "Uomo Vivo" e al suono dell' Inno di Busacca, procede, con andatura avanti-indietro, dall'interno della chiesa fin sul sagrato dove finalmente appare, ed è visibile fino al "piano del Cònsolo" la bella statua del Cristo Risorto. 



La statua, che è opera dello scultore Benedetto Civiletti, rappresenta il Cristo nelle sembianze di un giovane, dal corpo armonicamente vigoroso, coperto da una fascia giallo dorata, con un mantello rosso che gli copre il collo, e alle spalle i raggi del sole nascente, simboleggiano la rinascita; la testa è adornata da una patena, la mano destra alzata, benedicente, mentre con la sinistra regge un vessillo azzurro, il colore della resurrezione. 
E' a questo punto che esplode veramente la "festa degli Uomini", come bene l'ha cantata Vinicio Capossela, dopo aver visto la statua mentre "...barcolla, traballa sul dorso della folla, e ... con le tre dita la Via sembra indicare" .
E' certamente difficile descrivere, a chi non ha visto questa festaalmeno una volta, il tripudio della folla, fra le grida di "Evviva" e " Gio-gio-gio- Giooooia! " mentre petali di fiori, a pioggia, scendono dai balconi al passaggio della statua.
La Gioia intensa di questo momento, è ben rappresentata dall'esplosione degli artistici fuochi d'artificio che, dall'alto del colle di San Matteo, unendosi allo scampanio ininterrotto e alle grida di "GIOIA!" dei portatori, riempiono tutta la vallata.
La statua, sorretta da mille braccia osannanti avanza, in un mare di folla, sempre col suo andamento "ad onda" , lungo la via Santa M.la Nova, fino al piano del "Cònsolo", allorquando esplode una nuova e più vigorosa "maschiata" , "u pìttimu" : (sparo di grossi mortari, a catena), che sembra avvolgere uomini e cose dentro una nuvola di suoni e colori.
Poi l' "Uomu Vivu" , come affettuosamente viene chiamato dagli sciclitani, procede fino a piazza Busacca, dove si dà vita alla parte dei festeggiamenti che chiudono la mattina di Pasqua: i portatori, accompagnati dalla banda musicale, girano, ad andatura ora normale, ora veloce, attorno alla piazza al centro della quale svetta la statua di Pietro Di Lorenzo Busacca, fino al fatidico " ultimo giro", (mai prevedibile), allorquando i portatori, esausti e allo stremo delle loro forze si persuadono a deporre la statua dentro la vicina chiesa del Carmine.



"U gioia"
E' a questo punto che sui volti e negli sguardi delle persone è possibile cogliere le più svariate espressioni: in alcuni di giubilo e di autentica allegria, in altri di vero stupore e persino, in taluni, di esecrazione, per le connotazioni palesemente paganeggianti con cui si rappresenta una festa che ciascuno può "leggere" secondo un proprio registro interpretativo.
Nei più, tuttavia, è evidente il piacere di una festa straordinaria, assolutamente "sciclitana" . 
All'incirca verso le ore 16, la statua viene portata di nuovo in processione e, al rientro, esposta ancora alla ammirazione-venerazione dei visitatori.
I festeggiamenti si concludono dopo mezzanotte, nella chiesa di Santa M. la Nova, sempre fra le acclamazioni di Gioia, lo scintillìo delle luminarie e gli artistici fuochi d'artificio.
Rimane intatto il sapore di una festa nella quale si riconosce tutta la cittadinanza per le sue molteplici valenze: quella religiosa, inprimis, nella sua scaturigine primordiale in quanto capace di corrispondere al desiderio di rinascita e di eternità insito nel cuore dell' Uomo; non meno importante è poi la dimensione storico-folkloristica per la sua forza aggregante; un evento, infine, potente anche in funzione di "attrattore turistico" e come tale meritevole di essere annoverata fra i Grandi Eventi del Calendario Regionale e iscritta al R E I -Registro della Eredita'Immateriali. 

18 aprile 2012

Madonna delle Milizie

Statua della Madonna delle Mizilie
CENNI STORICI
MARIA SANTISSIMA DELLE MILIZIE
"La Madonna a cavallo"
PATRONA DELLA CITTÀ DI SCICLI"
Nel 1736 la Sacra Congregazione dei Riti decise che la festa di Maria Santissima delle Milizie, un tempo festa mobile, dovesse essere celebrata il Sabato prima della Domenica di Passione. Secondo una diffusa tradizione, riscontrata da diversi autori di opere storiche e religiose, quindici giorni prima della Pasqua del 1091 si sarebbe svolto, sulla marina di Scicli, uno scontro tra Ruggero il Normanno e l'Emiro Belcàne, miracolosamente risolto in favore dei Cristiani per l'intervento della Vergine. L'episodio, ovviamente, non è confermato, nè trova riscontro con quanto si sa di quel periodo. Belcàne non è personaggio riconoscibile: la data dell'avvenimento esclude l'identificazione di Belcàne con Belcho o Belcamuer (Ibn al-Hawwas), in quanto quest'ultimo morì in combattimento nel 1064. il nome Belcàne potrebbe essere accostato a quello di Benavet (forse un Ibn'Abbad), ultimo campione della resistenza musulmana. L'interpretazione che la tradizione ci ha dato di questo episodio richiama piuttosto alla mente azioni piratesche ed assalti barbareschi, verificatisi con molta frequenza nel secolo XVI. La festa, annessa a una fiera importante, ha avuto una tradizione ininterrotta. Nel 1933, a cura di Giuseppe Pacetto Vanasia, venne redatto un "copione"in lingua sotto forma di "sacra rappresentazione", che venne poi ristampato nel 1950 e che attualmente si rappresenta.



MEMORIA
Trovata nell'archivio del Castello Triquestre
di Scicli
"Anno Domini nostri Jusu Cripti MXCI tempora quadragesime vinni in la marina di li Michenchi ora dicta Donnalucata lu barbaru Ammiru Belicani Saraxino cum un maniu exercitu per dixtruiri omni quilli fidili Kriptani et la nostra yxula et lu barbaru cani nun chi riuxiu chi lu populo di Xicli si moxy tuctu et si armau et accursi per costringherlo et farilo fughire a quillo barbaro infidili ma videndo lo numiro di infidili grandi assai se prestraro cum la fachia per terra e prigando nostro Seniuri Jesu Cripto et Maria Vergine de la pietati che chiamaru per darichi fortia et corajo per dischiachare li barbari saraxini et illo et statim videro in lo Chelo una nugola che isprindea ut solis cum dintra la Vergina Maria cum brandus in dextera et chi rintronava a lu sou populo eu adsum ecce me Civitas dilecta protegam te dextera mea xi levaro di terra di un subito et videro lo exerxitu di li Normandi ut velociter aquile per ajutarli et uniti tucti si moxiro ut ulminem supra quilli infidili et li dixtructiru et fu tali la confugione et lo spavento che si uchisero ipsi stipsi ut more cane idrofobis durau la punia quasi per un jorno et di poi li xanti xakerdoti cantaru Tedeum laudanus et lo Magnificant accompaniati de lo exerxito et di lo populo et la nocti tucti li Normandi et tucto lo populo si rixtaro in lo dictu locu per prigari et ringratiari a Dio et Maria Vergine chi li salivau de lo ecchidio di li infidili la matina si aritruau lu campo cum immenso numero di morti et li barchi di li infidili tucti fuguti et de poi si ringratiau lu grandi Diu et Maria Vergine et si chiamau di li pij Santi xaxerdoti Sancta Maria Militum prosciclensibus et si stabileu farichi la fexta omni anno in lo jorno Sabato prechedente a la domenica di paxioni jorno sollenni di la punia et cusì fu liberata la nostra Terra per sempre amen".



Decreto della Sacra Congregazione dei Riti per la recita dell'Ufficio e della Messa, come sotto, nel Sabato prima della Domenica di Passione di qualsivoglia anno da parte del Clero della Città di Scicli in memoria della Santissima Vergine denominata della Milizia o delle Milizie, volgarmente delli milici, dato a Roma il giorno 10 marzo 1736, presentato ed eseguito a Palermo il giorno 5 Marzo 1737, a Siracusa il 18 Dicembre 1737 e a Scicli il 30 dello stesso mese e anno. (La Chiesa) Siracusana Essendo stato esposto da parte del Capitolo e del Clero della Città di Scicli della Diocesi di Siracusa che ogni anno il Sabato prima della Domenica di Passione si celebra con solenne magneficenza e devozione di popolo la festa di Santa Maria Militum volgarmente delle Milizie, nella Chiesa distante tre miglia dalle mura della Città, in ricordo, come si tramanda, dell'insigne miracolo avvenuto nell'anno 1091. Poichè, mentre i Saraceni invadevano la Sicilia, gli abitanti della predetta Città offerti alla Beatissima Vergine digiuno e preghiere, videro una Donna molto maestosa nell'aspetto, che cavalcava un bianco cavallo, con la mano armata di una spada e subito dopo furono  liberati, perciò fu chiesto molto umilmente alla Sacra Congregazione dei Riti il permesso di recitare l'Ufficio e rispettivamente di celebrare la Messa della Beata Maria Vergine come per la Madonna delle Nevi nel Sabato prima della Domenica di Passione e, la medesima Congregazione (previa tuttavia l'approvazione del sopra detto miracolo) benevolmente permise e concesse che potesse in avvenire essendo recitato dal Clero della predetta Città il richiesto Ufficio con le lezioni del secondo Notturno da trarsi dal discorso di San Berrnardo Abbate, che si trovano nel Breviario nel giorno ottavo dell'Assunzione e che potesse essere celebrata la Messa.
Addì 10 Marzo 1736 A.F.Zondari P.Prefetto



Convento delle Milizie
Perchè Scicli non dimentica la "sua" Madonna a cavallo "Scicli, o della Madonna a cavallo": così Lionello Fiumi titola un suo scritto, sottolineando il profondo rapporto tra la nostra città e la Vergine Maria. Un rapporto la cui radice si perde nei meandri della storia, che si nutre di gesti d'amore da entrambe le parti, e che si riassume nell'appellativo di SANCTA MARIA MILITUM PRO SCICLENSIBUS, attribuito alla Madonna, e nell'evento a cui questo si riferisce: l'intervento della Vergine proprio a favore della sua "civitas dilecta". E Scicli non dimentica la "sua" Madonna. E difatti, superato lo "scandalo" iconografico, come non leggervi la lezione del "Dio degli eserciti" che, "con mano potente e braccio disteso", fa uscire Israele dall'Egitto? (Cioè, uscendo fuor di metafora, come non leggervi quell'esperienza di fede in cui il Dio biblico si schiera sempre dalla parte dei poveri e degli oppressi?). O ancora, come non leggere - metastoricamente - nei segni della vittoria della Vergine i segni della biblica sconfitta del serpente dell'Eden o del drago dell'Apocalisse (icastiche immagini del Male)? In questo senso, allora, l'esperienza storica particolare di un popolo (l'invasione saracena, le scorrerie barbaresche e la protezione divina) diventa un "luogo" teologico, un luogo cioè dove cogliere e scoprire il volto di Dio che rivela il suo amore che salva e riscatta. E così, dunque, lo stesso "memoriale" dell'evento, rivissuto oggi nella forma della "sacra rappresentazione",  acquista la dimensione propria del dramma ( Bene e Male in duello!) con la sua funzione "catartica" (di purificazione cioè dei sentimenti), che vede il suo apice nell'apparizione del simulacro della Vergine ("Deus ex machina") che, al di là delle apparenze, diventa foriero di spirituale pacificazione. Ma il messaggio dell'evento, occorre ancora considerare, non può essere ristretto al puro ambito religioso-ecclesiale. Se Scicli è della Madonna a cavallo, la Madonna a cavallo è di Scicli! La Madonna a cavallo ha contribuito a creare e mantenere quella identità della collettività sciclitana, entrando nel patrimonio storico di questa e qualificandone i tratti non solo a livello religioso, ma anche culturale e sociale. Allora la festa dei Mulici, con l'evento stesso a cui si richiama, lungi dall'essere destinata ad una "damnatio memoriae", ha per noi sciclitani un significato profondo e suscita tuttora stimoli fecondi di riflessione. Infatti non si tratta qui della riproposizione di visioni trionfalistiche del passato (che comunque ci appartiene), e neanche di scadere in un folklorismo fine a se stesso (come in certe zone oggi spesso avviene), quanto invece del coraggio di volere apprender quelle lezioni di vita che solamente la Storia e il Dio della Storia sanno impartire, per il vivo recupero della identità di un popolo che, forte del passato, sa così capire il presente e sa guardare al futuro.

La cavalcata di San Giuseppe

Innestata su un residuo di quei drammi sacri che si inscenavano nel Medio Evo per propiziare un buon raccolto, gradualmente è stata "assimilata"dal Cristianesimo per farne una festa religiosa in onore al SantoPatriarca. 
Riccadi suggestioni è la lunga e laboriosa preparazione dellestraordinarie bardature dei cavalli; nei "dammusi" (ambientia pianterreno delle abitazioni), un gran numero di persone, su unaorditura di rami di palme, ( oggi largamente sostituiti dalla teladi juta), intesse migliaia di violaciocche (ubàlucu),componendo magnifici "quadretti" raffiguranti la Sacra Famiglia e svariati simboli sacri.
Icavalli così bardati, montati da cavalieri vestiti con icaratteristici costumi della tradizione contadina, muovono da ununico punto di raccolta, in prossimità della piazza principale dellacittà, dirigendosi verso il sagrato della chiesa dedicata al Santo; qui, una commissione esterna esaminata l'originalità e l'effettoscenografico delle bardature e dei "gruppi di cavalieri" e subitodopo, in un tripudio di suoni e al grido di "PATRIA' - PATRIA' -PATRIARCA!, il coloratissimo corteo, con la Sacra Famiglia in testa, si snoda per le vie della città dove, in vari punti e quartierisono accesi i "pagghiara", falo'attornoai quali si raccoglie la gente del vicinato in attesa del passaggiodella "Sacra Famiglia".
Adaccrescere la suggestione della caratteristica sfilata poi, i"ciaccari": fascidi ampelodesmo che i cavalieri e la gente del popolo tengono in mano,accesi, per "far luce" alla Santa Famiglia.
Oltreil fatto religioso, aggiunge colore al folklore la competizione trai gruppi dei "bardatori",i partecipanti che, nella "gara" mettono in campo il massimoimpegno nel realizzare manufatti di altissimo pregio artistico eartigianale.
Icavalieri indossano pantaloni e gilet di velluto nero, camiciabianca ricamata, fascia multicolore intessuta ai fianchi, fazzolettorosso al collo e ancora burritta, stivali e pipa di canna; ognicavallo viene "scortato" da altri personaggi, che durante laserata si alternano lungo il corteo.
Neglianni questa manifestazione si è un po' "snaturata", essendosi dovuta adattare alle mutate condizioni ambientali dalla città .
Larete di metanizzazione sottostante la pavimentazione stradale nonconsente più gli enormi falò, con le cataste di frasche emasserizie, che si accendevano al passaggio della Sacra Famiglia edove venivano arrostite succulente pietanze a base di carne; via viasono diventati piccoli ed improvvisati falò, attorno a cui ci siriunisce per banchettare con salsicce e braciole .Restano, tuttavia, intatti, gli elementi dell'antico rito e con essiil fascino e la suggestione della "festa" : il fuoco, comeelemento sacro, dal chiaro significato catartico; la violaciocca,fiore primaverile, per celebrare la fine dei rigori invernali e ilrisveglio della vita, il fascino di un evento dalle forticonnotazioni aggreganti, nel quale l'intera comunità cittadina,ancora oggi, si riconosce .

17 aprile 2012

Chiesa rupestre del Calvario


Chiesa del Calvario, campanile
   A mezza costa del colle della Croce, per mezzo di scalini scavati nella roccia e inerpicandosi fra la vegetazione che copre il fianco della omonima collina, si arriva alla chiesa rupestre detta del "Calvario" al cui sito ben si accompagna il nome. L' immagine che qui si adora è Gesù Cristo morto con accanto la Vergine Addolorata e le Marie. Di tale chiesa il notaro Antonino Militello ne fa memoria negli atti del 1521 e nel 1574 viene chiamata basilica da due atti del notaro Guglielmo Marsala, come si legge in "Notizie Storiche della Città di Scicli " di Antonino Carioti.
Sui battenti del portone d'ingresso, attraverso cui si accede all'ampio locale scavato nella roccia, si trovano i simboli della passione di Cristo (chiodi, martello, tenaglia da una parte e scala e lancia dall'altra). Al di sopra s'innalza l'alto campanile, mentre all'interno, il pavimento, ancora allo stato originario, è suddiviso in grandi rettangoli da lastre lisce che si susseguono e si intersecano vicino alle pareti e al centro. In fondo uno scalino divide la navata dal presbiterio; tre scalini (numero che simboleggia la Trinità) portano all'altare di pietra. Il paliotto riproduca in altorilievo "La Pietà". Il corpo di Cristo, coperto dal perizoma, è tenuto sulle ginocchia della Madonna Velata; Maria di Magdala, inginocchiata e a capo scoperto, bacia le mani di Cristo. Ai lati, in alto, gruppi di angeli piangenti; a sinistra sono scolpiti il sole e un angelo che tiene in mano la scala, il martello e la tenaglia; in basso la croce con la corona di spine e i tre chiodi. A destra, un altro angelo tiene in mano altri simboli della Passione: la colonna, a cui Cristo fu legato per essere fustigato; la canna messa in mano a Cristo al posto dello scettro, la canna con la spugna imbevuta di aceto e la lancia con cui fu ferito al costato. In basso, il simbolo del sepolcro; in corrispondenza del sole, la luna, simbolo della notte e della fine. Sulla cornice del paliotto spicca la conchiglia che simboleggia la sacralità della raffigurazione. Sul piano della mensa si vede ancora la pietra benedetta quadrata, che racchiude a sua volta le reliquie di un Santo o di un Martire. Esse venivano poste nell'altare per rendere sacro il piano su cui veniva celebrata la messa; al centro, sul piano superiore a quello della mensa, c' è un tronetto con baldacchino, sotto il cui panneggio si trova la colomba, simbolo dello Spirito Santo. Dietro il tronetto, un'ampia apertura rettangolare, un tempo chiusa da una vetrata inquadrata da una cornice di legno scandita dai colori rosso, azzurro e giallo, fa vedere il corpo di Cristo con le ferite della Crocifissione adagiato su un piano di pietra, in bassorilievo, l'immagine tattile di una coperta impreziosita da una frangia dorata su cui il corpo di Cristo sembra dormire. Egli è raffigurato con il capo reclinato dalla parte di chi guarda; il braccio destro disteso lungo i fianchi, il sinistro rilassato, poggia con la mano sullo stomaco; i piedi, divaricati, hanno le dita lunghe e affusolate. Sul torace, in un gioco plastico, si rilevano le clavicole e le costole.
L'altare, fiancheggiato da due bellissime volute di foglie di acanto, secondo l'uso bizantino, è orientato ad est, perchè da lì sorge il sole, a simboleggiare la figura di Cristo che con la sua venuta caccerà il male e farà trionfare il bene. Ai lati del presbiterio, scavate nelle pareti, due grandi nicchie, contengono rispettivamente, quella di sinistra, un busto raffigurante la Madonna e quella di destra, il busto raffigurante San Giovanni. La figura della Madonna, avvolta dal mantello blu e dal capo velato, fa intravedere, come quella del paliotto, l'ampio collare bianco a pieghe, di foggia cinquecentesca. Sull'altro lato il busto di San Giovanni ricalca l'iconografia del più giovane degli apostoli: guance imberbi di adolescente, capigliatura lunga, veste verde, simbolo della giovinezza e della speranza e mantello rosso, simbolo del martirio. In entrambe le nicchie le tracce di rosso e di altri colori lasciano chiaramente intravedere le pieghe delle valve della conchiglia, simbolo del prezioso contenuto. Sulle pareti laterali, scavate nella roccia, si trovano diverse incavature che servivano per riporre i lumini; due incavature, l'una sull'altra, simmetriche sulle due pareti e allineate al ripiano dello scalino del presbiterio, fanno pensare ad un'altra cancellata che lo divideva dalla navata a botte. In alto a sinistra, scavata nella roccia, una grande lettera riproduce la "tau", lettera greca presente nelle chiese francescane, testimonianza che prova la veridicità di quanto si legge nel Carioti, che cioè la chiesa era di proprietà degli osservanti minori del Convento della Croce che si trova più in alto nella stessa collina. Dalle tracce di colore che ancora si vedono, si può dedurre che tutte le pareti erano sicuramente affrescate, soprattutto quella di destra, e quella dell'altare, qui sono ancora visibili gli affreschi raffiguranti le tre croci sul Golgota e sulla croce centrale si vedono, appoggiate, le scale che richiamano il momento della deposizione. Nella chiesa rupestre sono presenti: il colore rosso, simbolo dell'umanità e del martirio; il colore giallo, simbolo della santità di Dio, luce ed eternità, identificato con il sole e il blu, colore quest'ultimo che richiama il cielo e scandisce anche l'alzata dei tre scalini che portano all'altare. Dietro l'altare un piccolo locale, dentro il quale è stato costruito, sopra un alto basamento, il sepolcro su cui è adagiata la statua del Cristo Deposto, presenta un pavimento coperto di piccoli mattoni rossi e custodisce, murata nella parete di fondo, una tomba. Infine, da segnalare, la presenza nel locale della sacrestia, a cui si accede da un'apertura nella parete di destra e vicino al portone d'ingresso, un originale lavamani . Esso consiste in una grande ciotola tenuta da una grande mano, su cui è incisa, in bassorilievo sulla roccia, una croce. 
Si sa che, dopo il terremoto in Scicli, del 1693 in Essa furono trasferiti gli Oli Sacri della Cattedrale di San Matteo perchè fossero protetti da eventuali altri terremoti. 

Dal Carioti si hanno testimonianze che " La notte del Giovedì Santo si faceva a questa grotta, un pellegrinaggio di penitenza; i devoti traevano fin lassù, per la ripida erta, recando sulle spalle, per penitenza, una pietra più o meno pesante, che poi gettavano a far mucchio, davanti alla grotta". 

Chiesa rupestre di Santa Maria della catena

La chiesa, risalente agli anni prima del Mille, è scavata nella dura roccia di calcare, alle falde del Colle di S. Matteo, in luogo dove i primi Cristiani fecero dei Santuari per venerare la Madonna Vergine Madre di Dio dentro spelonche attorno a tutto il Colle e le vallate di Santa Lucia e di San Bartolomeo, contrade, queste dove esistono tuttora centinaia di vetusti sepolcreti, all'epoca perimetro urbano dell'antica Scicli.
In un Atto del 3 settembre 1667, del Notaro Antonio Infilio, si legge che nella Chiesa fu istituito un Beneficio appartenente a Don Francesco Sicoli mediante privilegio della Cancelleria del Vescovo di Siracusa, del 15 maggio 1658. A questa chiesa appartennero terre che furono donate da Don Ignazio Bono con Atto del 18 novembre 1720 in Notaro Mariano Terranova. Ogni anno, in detta Chiesa, si festeggiava in esterno Maria SS. della Catena portante in braccio il Bambino Gesù ed una catena colorata tra le mani, protettrice dei Cristiani Sciclitani rapiti dai Pirati di mare e ridotti schiavi in catene.
La Madonna venerata con questo titolo si può ammirare in una antica statua di squisita fattura ( opera del 1100) che viene portata in processione per le vie della città. Nella chiesetta si può ammirare, inoltre un'artistica "Pila"( acquasantiera) d'epoca bizantina. La facciata, con Portale d'ingresso ad arco, ha colonne cimate da capitelli dalle linee e decorazioni del periodo dell'Arte Tardo- Antica. Nel 1200 la chiesetta fu trasferita in un'altra grotta vicina, dove esiste tutt'ora, e fu abbellita con stucchi dorati e pitture. 

Chiesa rupestre di San Pietro

Chiesa rupestre di San Pietro 
   La chiesa di San Pietro, ubicata sulle basse pendici occidentali del colle di San Matteo, al N. civico della via omonima, è una delle prime chiese cristiane scavate nella dura roccia di calcare ed ampliata, fuori della grotta scavata nel XVII sec. L'edificio, attualmente in uno stato di conservazione assai precario, è ad unica navata e a tre campate; della preesistente chiesa rupestre restano due ambienti poi inglobati all'interno dell'edificio successivo: uno, il più importante, mantiene lo stesso orientamento (verso Ovest) della chiesa. Dall'opera del Carioti, (Notizie storiche della città di Scicli, pagg. 427-428), che costituisce la principale fonte documentaria, si apprende che " ... è antichissima prima assai da che scese su'l piano la città. Era sino al secolo 600 in quella grotta che restò dietro l'altare maggiore, da che si ampliò. Ivi vi furono altri due altari, de' quali ancora ne appariscono le vetuste sacre immagini colorite su le pareti della rocca, una de' quali rappresenta Gesù Cristo alla colonna..." . In effetti, dietro l'altare maggiore è presente un ambiente ipogeico, unica persistenza del corpo centrale della originaria chiesa rupestre, purtroppo anch'esso in stato di abbandono, dopo essere stato utilizzato come rifugio antiaereo durante l'ultimo conflitto mondiale. All'unico ambiente ricavato nella roccia, si accede attraverso due strette aperture disposte simmetricamente ai lati dell'altare maggiore, nella parete di fondo della navata; l'ingresso a sinistra dell'altare ha un piedritto che si appoggia direttamente alla parete rocciosa. Questo vano, a pianta tendenzialmente rettangolare,che raggiunge l'altezza massima di m.2,57 in corrispondenza della parete in muratura retrostante l'altare, mostra un tratto del pavimento originario mentre il soffitto, piatto, presenta un anello reggilampade.Presso l'angolo sudorientale dell'ambiente, un accumulo di pietrame di grossa pezzatura ostruisce un'ampia cavità irregolare, forse il tentativo di ricavare un'alta nicchia o un altro vano; l'apertura di una profonda faglia nella parete di fondo potrebbe spiegare l'improvvisa interruzione dell'operazione di scavo. Ancora leggibili appaiono le due nicchie in corrispondenza dei due altari, esse hanno sagoma rettangolare e pianta trapezoidale, sono poco profonde ed entrambe recano tracce di affreschi attualmente ricoperti da incrostazioni calcaree. La nicchia settentrionale,che ha una luce di m. 1,59, appare devastata ai margini destro e sinistro, laddove la presenza di due brevi riseghe sul piano di imposta indicherebbe una manipolazione successiva della nicchia volta ad un suo ampliamento. Nel pannello di fondo, nonostante le incrostazioni calcaree è possibile scorgere una mensa imbandita che presenta da destra una pisside cilindrica dalla superficie rosata, un calice color avorio con l'orlo estroflesso e, poco più in alto, un pane di color giallo scuro con partizioni brune; contigua a questo è visibile una mano sinistra con l'indice e l'anulare dalla forma insolitamente allungata e decisamente sovradimensionata rispetto agli oggetti vicini posti sulla tavola.; il lembo della tovaglia che scende da questa appare decorato con una sequenza di partizioni rettangolari, immediatamente al di sotto si scorgono, forse , le gambe del personaggio e, poco più in basso, una fascia dipinta recante una iscrizione di cui restano leggibili solo poche lettere. In alto, invece si intravedono le tracce di un panneggio rosso senza ulteriori particolari leggibili. Appare davvero inusuale, date le notevoli dimensioni, la pochezza del numero degli elementi figurati riconoscibili e la presenza di pochi personaggi , vi si potrebbe riconoscere una versione "abbreviata" dell' Istituzione dell'Eucarestia. 

16 aprile 2012

Chiesa di San Giuseppe

Chiesa di San Giuseppe
 Fondata verso il 1500 da Giannantonio Miccichè, nel quartiere Pendino o Casale, che poi da essa prese il nome di S. Giuseppe, fu elevata, nel 1598, a Grangia della chiesa Madre dal Vescovo di Siracusa D. Giovanni Orosco.
Già precedentemente un gruppo di Francescani Cordiglieri si era insediato sulla collina della Croce costruendo un Convento e l'attuale Chiesa, con l'ampliamento di un antico oratorio; successivamente, altri Frati Cappuccini, anch'essi Francescani, avevano costruito un convento e una chiesa, sulla fiancata del Colle di S. Marco, su un terreno già appartenuto ai Confrati della Chiesa di Santa Agrippina, che spiega la presenza della statua quattrocentesca della Santa insieme a quella di Sant'Onofrio, di cui, invece non esiste traccia. Se in tale contesto topografico si inserisce la Chiesa rupestre del Calvario, risulta evidente il desiderio di un'ideale ricostruzione, sulla stessa collina, di un percorso di luoghi santi .
Il terremoto del 1693 distrusse in buona parte la Chiesa che però, nel periodo immediatamente successivo, venne ricostruita nelle odierne linee sobrie ed essenziali che le conferiscono quella contenuta maestosità; unici ornamenti alla lieve concavità della facciata, racchiusa nei suoi contrafforti laterali, sono la vetrata e un cartiglio con incise le lettere:
D (eo), O (ptimo), M (aximo) 
et
S (anctae), M (ariae)
ed un concio rettangolare con la data della ricostruzione della Chiesa, 1772.
L'interno, ad una sola navata presenta, all'entrata, sul lato sinistro, la nicchia con il fonte battesimale e, addossata alla parete, un'acquasantiera sostenuta da un puttino alato, avvolto in un lungo panneggio antecedente, forse, alla ricostruzione del XVIII secolo. Subito dopo troviamo l'altare dedicato alla Crocefissione : il corpo di Cristo, raffigurato con le caratteristiche dei Crocefissi anteriori al '600, (stillante sangue dalle ferite delle mani e dei piedi, dalla fronte, dal costato e dalle ginocchia), è fiancheggiato da due statuette raffiguranti Maria e San Giovanni. Una nicchia separa questo altare da quello dedicato a Santa Agrippina, la statua, in marmo, poggia su una base ottagonale nella quale è incisa la data del 1497 e sui lati sono raffigurati gli episodi riguardanti il martirio e i miracoli operati dalla Santa che tiene in mano il Vangelo, simbolo della fede in nome della quale subì il martirio e sconfisse il male, simboleggiato dal mostro mezzo animale e mezzo uomo, tenuto in catene sotto i piedi della Santa; nell'altro braccio è adagiata la palma,simbolo del martirio; la nicchia mostra, in alto, la conchiglia, simbolo della preziosità del contenuto, ed è attorniata da stucchi imitanti ricchi panneggi, che richiamano quelli dell'altare dell'oratorio di S. Maria della Croce. Il Presbiterio, di forma rettangolare, con volta a crociera, ospita un grandissimo quadro raffigurante in alto, al centro, il Pantocrate, ai cui lati sono la Madonna e San Giuseppe; al di sotto le figure di numerosi Santi con, al centro, San Corrado. L'altare centrale, di marmo policromo, è sovrastato da una nicchia che ospitava la statua di S. Giuseppe, ora situata su un piedistallo al di sopra dell'altare stesso.
La statua, iniziata nel 1773 dal Padula, (lo stesso che realizzò il presepe di S. Bartolomeo), rimase incompleta per la morte dell'artista; un artigiano locale, il Cultraro (o Cultrera) intervenne per realizzare il braccio destro e il Bambino Gesù seduto su di esso, mentre il braccio sinistro sorregge il bastone fiorito, simbolo della speranza; ai piedi, il giglio (simbolo della purezza della fede) presenta sei punte che richiamano la stella di Davide, alla cui stirpe appartiene S. Giuseppe. A sinistra, sotto il coro, una preziosa cornice di stile barocco racchiude una tela raffigurante la cacciata dei mercanti dal tempio. Sulla volta dell'abside un affresco raffigura la morte di S. Giuseppe, protettore dei morenti, al suo capezzale, su una seggiola con braccioli, Gesù , suo figlio putativo; ai piedi del letto, su un panchetto, coperta con un lungo mantello, la Madonna, sua sposa, a lato del letto un angelo, mentre in alto teste di putti si affacciano tra nuvole. Sulla parete di destra, dalla balaustra del presbiterio, una nicchia contiene la statua del Sacro Cuore; un'altra, un quadro raffigurante la Madonna della Grazia, attorniata da putti alati e da angeli e fiancheggiata, in basso dalle figure delle due martiri siciliane: S. Agata e S. Lucia, mentre in basso, sovrapposte in parte sul nome del committente, sono inserite figure di anime del Purgatorio che richiamano, per le caratteristiche iconografiche, le anime purganti raffigurate nel quadro della Mater Gratiarum posto nella nicchia di sinistra della chiesa di S. Maria del Gesù dei Minori Osservanti. Lesene con capitelli ionici sostengono la trabeazione di questa nicchia, mentre gli altri altari sono fiancheggiati da lesene con capitelli corinzi. Al di sopra della trabeazione, su ogni lato, tra le finestre vetrate, spicca la croce di Malta. Il tetto, a botte, è scandito da vele a crociera che si dipartono dalle finestre; l'arco trionfale che insiste sulla balaustra e che divide la navata dal presbiterio, è scandito da corpi ovali dorati. 

Chiesa di San Matteo

Chiesa di San Matteo
 In cima al Colle S. Matteo, circondato da rovine e ruderi di Scicli antica, sorge il maestoso primo duomo cittadino, dedicato all'Apostolo S. Matteo, patrono dell'antica città e protettore dei naviganti.
Purtroppo, le antiche architetture che avrebbero potuto testimoniare il periodo esatto della sua fondazione furono occultate, coperte e rifatte diverse volte a causa dei terremoti, ma antichi documenti tramandati da scrittori del tempo testimoniano l'esistenza della chiesa già a partire dall'anno 313 d.c. con la diffusione del libero culto del Cristianesimo. La chiesa, infatti, poggia le sue fondamenta su numerosi sotterranei e catacombe, utilizzate fino al 1884 per accogliere le spoglie dei cittadini Sciclitano di fede Cristiana.
Il terremoto del 1693 fece crollare l'intero edificio che venne ricostruito per volontà e partecipazione del popolo sullo stesso luogo contravvenendo alla volontà del vescovo. Tale decisione era carica di forte significato religioso in quanto in questa chiesa si veneravano le reliquie del Beato Guglielmo, eremita morto a Scicli nel 1404 e ivi sepolto.
Si narra che il corpo del Santo, racchiuso in un'urna di marmo, fu immerso in una tinozza piena d'acqua e che gocce di quell'acqua benedetta furono bevuta da migliaia di malati di peste che guarirono, e dagli ancora non contagiati che ebbero l'immunità.
Oggi, ciò che rimane delle spoglie del Santo, viene custodito all'interno di una cassa d'argento conservata nella chiesa di S. Ignazio.
Il prospetto, probabilmente mai completato, si sviluppa su due ordini: quello inferiore presenta tre portali d'ingresso con una superficie scandita da coppie di lesene e colonne; l'ordine superiore si sviluppa solo nella parte centrale concluso lateralmente da due volute con pennacchi e motivi naturalistici, che fungono da elementi di raccordo tra i due piani. Il finestrone centrale è incorniciato da colonne e lesene. Sulla cornice marcapiano, al di sopra del portale centrale, un cartiglio reca la data 1762 che potrebbe riferirsi al completamento dell'edificio.
La fiancata rivolta verso la città, che si sviluppa in larghezza come una seconda facciata, coincide con la fiancata della navata minore destra; essa si conclude con una loggia campanaria tripartita, che sostituì il campanile precedente, alto e slanciato, collocato a ridosso dell'abside e crollato durante il terremoto. 
Lo stretto e lungo piazzale che si affaccia sulla vallata, è costruito in parte sul tetto del grande edificio che anticamente costituiva l'abitazione dell'Arciprete parroco, e che durante la pestilenza del 1837 fu utilizzato come cimitero. A nord del piazzale si trova l'orologio civico di San Matteo che, prima del terremoto, era collocato sul campanile della chiesa e che probabilmente questo sia solo un rifacimento di quello originario.
L'interno è a pianta basilicale a tre navate concluse da tre absidi quadrangolari; la navata centrale è separata da quelle laterali da pilastri cruciformi, su cui si addossano lesene con capitelli di ordine composito in calcare di ottima fattura artigianale. Sopra l'architrave si aprono cinque grandi finestre per lato che, insieme a quella anteriore, davano luce alla navata centrale. 
Poco resta della bellezza decorativa interna: una raggiera con putti al centro dell'abside sopra l'altare centrale e accenni di una ricca decorazione nei due altari delle cappelle absidali laterali. Inoltre, grazie ai lavori di restauro, è stato portato alla luce un antico pavimento in pietra bianca e nera di Ragusa a forme poligonali e ovoidali.

Chiesa del Rosario

Chiesa del Rosario
    La chiesa dedicata alla Madonna di Monserrato, oggi detta del Rosario, fu ingrandita ad opera di numerosi devoti sciclitani. Rocco Pirri in "Sicilia sacra" descrive la prima costruzione d'Essa nell'anno 1516, come si legge in Atto del notaro Antonino Militello del 1539 da cui risultano i principali benefattori: Antonino Schifitto, Paolo Ficicchia, Cola Tommaso Maltisi, Antonino di Falco, Antonino Ioccia e Giuseppe Cappitta.
Il luogo per la costruzione fu scelto nella sommità del Monte Campagna, con magnifica visione panoramica del territorio e del mare sciclitano.
Una statua della Vergine Maria venerata in questa chiesa compì numerosi prodigi e guarigioni di malati. Essa fu posta nella Cappella dell'Altare Maggiore nel 1648 ad opera di P. Domenico Rosa di Scicli. I miracoli sono registrati in un libro conservato nel Convento. Nel volume "Madonne Sciclitane"si narra anche di un'ampolla d'olio rinvenuta nel 1600 nella chiesa, e nella quale il liquido non finiva mai. L'olio, spalmato addosso, guariva gli ammalati travagliati da infermità.
L'immagine di questa Statua prodigiosa apparve rassicurante al Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Malta, prima di sconfiggere i Turchi, intorno all'anno 1565, e , grato di ciò, donò alla Chiesa ingente bottino conquistato ai Musulmani (armi, trofei, bandiere etc.) e quaranta mortai in bronzo dei quali fusi, si fabbricò la campana che ancora oggi è attaccata all'artistico campanile della chiesa.
Il Pirri riferisce che nell' "Historia Domenicana" si legge del Convento, il quale iniziò l'attività per mezzo di P. Merlino nell'anno 1556 e che il Vescovo di Siracusa Giovanni Orosco concesse ai PP. Domenicani di prendere possesso del Convento e della Chiesa il 29 aprile 1567.
Il Convento era stato soppresso con Bolla del 1652 di Papa Innocenzo perchè non aveva i mezzi necessari per il mantenimento dei Monaci. Riprese l'attività mediante donazioni di terre fatte da famiglie sciclitane per cui dentro Esso fiorirono Scuole di Teologia e Filosofia dalle quali uscirono Sacerdoti di grande intelletto che si distinsero per carità, santità e perchè furono valenti predicatori del Vangelo e cultori di Lettere. Tra questi i più celebri furono: P. Bacillieri, P. Fr. Marni ( Missionario e predicatore in Spagna e nelle Indie, morto in odore di santità), P. Decio Mirabella di Scicli, P. Decio Abarca, P. Guglielmo Dinaro, P. Domenico Rosa, P. Baldassarre Rosa, P. Antonio Rosa, P. Giacinto Frasca, P. Domenico Furnari.
Il terremoto del 1693 devastò soltanto il cappellone della Chiesa che fu restaurata dal predetto P. Rosa.

Convento della Croce

Convento della Croce, Sec. XVI
 Sulla cima dell'omonimo colle si sviluppa il complesso della Croce che comprende una chiesa, un oratorio e un monastero.
Il monastero fu fondato dai Frati minori osservanti gli insegnamenti di S.Francesco, agli inizi del XVI sec, grazie al contributo dell'Università di Scicli e dei Conti di Modica, Anna Cabrera e Federico Enriquez.
Risparmiato dal terremoto avvenuto nel 1693, il monastero si articola su due cortili di forma trapezoidale, collocati a ridosso dello strapiombo della cava, di cui restano solamente alcuni ruderi.
L'annessa chiesa venne ultimata nel 1528, come si legge dalla data incisa nel cartiglio a losanga sul lato sinistro del prospetto.
La facciata si articola fra modanature tardo-gotiche, ed è conclusa da un tetto a doppia falda. Sul portale d'ingresso si aprono un arco a tutto sesto e un arco a sesto acuto; tra i due è collocato lo stemma quadrato appartenente ai Conti di Modica. Un altorilievo che raffigura un roditore nell'atto di mordere grappoli d'uva e un Agnello pasquale acefalo decorano parte dell'arco a tutto sesto.
Il sistema degli archi termina in una cornice lineare delimitata ai lati da due colonnine tortili; sotto la colonna destra un leone accovacciato viene morso da un ramarro. Sopra la cornice lineare si trova una finestrella quadrata, ai lati della quale si collocano due stemmi romboidali: quello di sinistra è lo stemma municipale, l'altro è di dubbia attribuzione.
La chiesa si sviluppa seguendo una pianta rettangolare, conclusa da un'abside semicircolare e coperta da una volta a botte.
L'oratorio, dedicato alla Madonna di Sion e annesso alla chiesa nella parte retrostante, risale probabilmente alla seconda metà del quattrocento. Si presenta con un prospetto molto semplice scandito da un portale in stile gotico, racchiuso da due semicolonne concluse da un arco trilobato su cui è scolpita una croce in altorilievo.
Di recente il complesso è stato restaurato.

Chiesa Santa Teresa

Chiesa Santa Teresa, Sec, XVII - XVIII
La chiesa era annessa, sotto il titolo di S. Chiara, all'ex monastero di S. Teresa, fondato nel 1660 dai Carmelitani Scalzi, in cui, nel 1673, venne istituita la clausura. Raso al suolo dal terremoto del 1693, il monastero venne ricostruito tra il 1715 e il 1719 dal capomastro Giuseppe Puccia.
Molto interessante è la chiesa nella facciata rettangolare, racchiusa da due paraste di ordine tuscanico e conclusa da un loggiato a tre arcate, al quale si affianca la piccola cella campanaria. Il portale d'ingresso è sovrastato da una finestra quadrangolare quadribolata finemente lavorata, con una balaustra sottostante e borchie floreali ai quattro angoli, presentando i caratteri tipici del rosone.
Lo spazio interno tardo barocco è a navata unica,preceduta da un profondo nartece e conclusa da un'abside rettangolare. Quattro cappelle si dispongono sulle pareti laterali, inframezzate da colonne poggianti su alti piedistalli.
Sull'altare centrale è collocata un'opera, che ha per soggetto S. Teresa, dipinta dal canonico Don Filippo Fangelli nel 1698; sull'altare del lato destro si colloca una tela con la Madonna in trono tra i Santi, datata 1761; mentre sull'altare del lato sinistro è situato un crocifisso decorato da cornici lignee a motivi floreali. Nel 1854 il pittore chiaramontano Don Gaetano Di Stefano eseguì le pitture a fresco della volta della navata e le tre tele relative alla vita di S. Teresa. La tela della volta dell'abside, raffigurante la Natività, dovrebbe essere opera del pittore romano Lorenzo Rota.
Il pavimento, eseguito nel 1757 in pietra ragusana bianca e nera, è uno dei più interessanti per le forme geometriche.
"....La cura con cui fu trattato ogni minimo particolare rende questo spazio stretto e lungo densamente spirituale, soprattutto per la complessa ornamentazione della parete di fondo, vero e proprio paradiso artificiale, al centro del quale domina un'aquila con intorno putti e angeli, nuvole, fiori, frutta, foglie, conchiglie, allegorie e santi, uno spazio che permette una fruizione voluttuosa e seducente dei misteri della fede, in questo contesto satura di luce bianca." (P. Nifosì)
La chiesa rimase aperta al culto fino al 1950, solamente attorno al 1960 il Vescovo di Noto la cedette al Comune, il quale, dopo aver apportato degli interventi di restauro, ha reso questo spazio disponibile ad accogliere iniziative culturali e sociali. Attualmente il Monastero è stato trasformato in abitazioni private. 

14 aprile 2012

Chiesa Santa Maria della consolazione

Chiesa Santa Maria della consolazione, Sec. XVII - XVIII
 È la prima chiesa che si incontra percorrendo la profonda cava di S.M la Nova; giace su un ampio basamento pavimentato con antiche basole, elevato rispetto al piano stradale. Si tratta di una chiesa nella quale è possibile riconoscere più fasi edilizie: nel XV secolo è attestata la presenza di un tempio dedicato a S. Tommaso Apostolo, nella seconda metà del '600 fu riedificata per essere, infine, ricostruita dopo il terremoto del 1693.
E' caratterizza da una facciata piana a due ordini: nel primo lesene tuscaniche la dividono in tre parti. Al centro spicca un sobrio portone sormontato da un cartiglio; lateralmente si ripete, in modo simmetrico, lo schema porta-nicchia-finestra. 
Il secondo ordine comprende quattro lesene composite che inquadrano la finestra balconata dalla quale penetra la luce che illumina l'intera navata centrale. Chiude superiormente la facciata un timpano triangolare. Sul prospetto si legge ancora il titolo di Patrona Civitatis concesso dal re Filippo IV di Spagna nel 1645.
L'interno della basilica è a tre navate separate da pesanti e bassi pilastri. Ai lati si sviluppano tre cappelle con volta a botte e l'abside semicircolare coperto da cupola ribassata. Singolare è il pavimento interno della chiesa, a motivi geometrici e floreali, interamente realizzato con pietra calcarea bianca e pietra pece nera, tipiche degli Iblei. Il fondo dell' altare maggiore è occupato da una tela, di cui non si conosce l'artista, raffigurante Cristo con le anime del Purgatorio, della seconda metà del XVII secolo; le cappelle laterali ospitano due eccezionali statue lignee che richiamano la Flagellazione di Cristo e Cristo con le mani legate. 
Caso unico a Scicli è il campanile isolato che termina con una cuspide arricchita da cangianti maioliche. 
Esternamente sul lato destro della chiesa si conserva un eccezionale portale d'accesso da attribuire ad un tempio cristiano che qui esisteva prima del sisma del 1693; è in stile gotico con bassorilievi che richiamano scene della vita e del martirio di S. Tommaso Apostolo. 

Chiesa madre di S. Ignazio

Chiesa madre, Sec. XVII - XVIII
È una tra le più antiche chiese ancora aperte al culto in città; è la sede della matrice dal 1874, da quando, cioè, venne chiusa la chiesa di San Matteo; nel 1986, per decreto vescovile, è stata intitolata a San Guglielmo Eremita. Era annessa al convento dei Gesuiti, che nel 1961 fu demolito per far posto all'attuale edificio scolastico.
Fu distrutta assieme al collegio, ancora in costruzione, dal terremoto del 1693, e successivamente fu ricostruita; sembra che i lavori si siano conclusi intorno al 1751, visto che tale data compare sulla facciata della chiesa. I disegni del progetto originario relativo alla costruzione prima del terremoto, sono attualmente conservati presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.
La facciata, conclusa da un timpano mistilineo, presenta due ordini, con una superficie movimentata da lesene a da controlesene, comprendenti quattro statue collocate su piedistalli e decorazioni con testine di putti e motivi fogliacei.
Il secondo ordine è affiancato ai lati da due campanili cuspidati e concluso da un timpano con cornice concavo-convesso; al centro è collocato uno degli orologi civici della città.
La chiesa, al suo interno, è a pianta basilicale a tre navate: la navata centrale è separata da quelle laterali da grossi pilastri a cui si appoggiavano delle semicolonne.
Le navate laterali sono suddivise in tre cappelle, di cui due di esse sono dedicate ai santi patroni della città. Una è in onore alla Madonna delle Milizie, il cui simulacro di cartapesta raffigura la Madonna guerriera con il mantello azzurro e la spada sulla mano destra, seduta sopra un cavallo bianco impennato sulle zampe posteriori, sotto il quale si trovano due saraceni schiacciati.
Non si conosce la provenienza del simulacro, ma si hanno notizie della tela raffigurante la Madonna durante la battaglia tra i normanni e i saraceni avvenuta, secondo la leggenda, nel 1091 sulla costa sciclitana. Realizzata da Francesco Pascucci nel 1780, proveniente dall'Eremo delle Milizie, si trova oggi collocata tra la seconda e la terza cappella.
Provenienti da altre chiese sono i dipinti della Madonna del Carmine coi santi carmelitani di Pietro Azzarelli (1731) e la tela coi santi in sacra conversazione.
La terza cappella è dedicata a San Guglielmo: qui è conservata una grande arca laminata realizzata tra il '600 e il '700, al cui interno sono custodite due reliquiari (probabilmente realizzati da argentieri palermitani) con il busto contenente le ossa del santo. Particolarmente interessante è il pannello dell'urna in cui è rappresentata la città di Scicli. Ai piedi della cappella si trova una lapide in marmo recante la data del 1565 proveniente dalla chiesa di san Matteo.
La navata di sinistra si conclude con la cappella del Santissimo Sacramento. Nella navata destra si trova un dipinto di Antonio Manoli (1721), raffigurante una veduta di Scicli seicentesca con San Guglielmo.

Chiesa e convento del Carmine

Chiesa e convento del Carmine, Sec. XVII - XVIII
 La fondazione del convento sarebbe avvenuta nel 1368; inizialmente fu annesso alla chiesa di San Giacomo Interciso, titolo successivamente sostituito da Santa Maria Annunziata. A testimonianza di tale sovrapposizione resta il fatto che un altare rimane dedicato alla Madonna Annunziata. 
La chiesa, la sua facciata e l'ala orientale del convento, risalenti al secondo Settecento, sono stati progettati dall'architetto Fra Alberto Maria di San Giovanni Battista, carmelitano dalla stretta osservanza e residente nello stesso convento.
La facciata a tre ordini, realizzata in un sobrio e raffinato stile rococò, è divisa in tre comparti da fasce di lesene. L'elegante portale, decorato da motivi fogliacei, del primo ordine è sovrastato da un finestrone posto nel secondo. Il terzo ordine, che si sviluppa solo nella parte centrale, è concluso da una delle sette statue che adornano la facciata.
La pianta della chiesa mostra un'unica navata preceduta da un nartece biabsidato con ampio coro sovrastante e terminante nell'abside semicircolare al centro della quale è posto un altare in marmo. I due lati delle navate sono scanditi da paraste di ordine composito che determinano sei nicchie, ospitanti altari marmorei. In cinque dei sei altari, opera di Tommaso Privitera di Catania, si trovano delle grandi tele, attribuite al pittore netino Costantino Carasi (XVIII secolo), rappresentanti l'Adorazione dei pastori, l'Annunciazione, la Trasfigurazione e due Santi Carmelitani. Altre pitture, tutte del secondo Settecento, si trovano lungo le pareti della navata, mentre sull'ultimo altare del lato sinistro si trova un Crocifisso di legno di cedro del '400. 
Sull'altare maggiore, in una nicchia, è collocata la statua della Madonna del Carmine, che regge sul braccio sinistro Gesù bambino, realizzata nel 1760 da Francesco Castro: la statua ha la testa e le mani in legno, la ricca veste è tutta in argento sbalzato con decorazioni floreali.
Gli stucchi bianchi sono opera del Gianforma mentre quelli dell'abside furono realizzati da Salvatore Alì, incaricato, alla fine del XIX secolo, di rifare l'abside, la sagrestia e forse anche il campanile che riprende il disegno di quello della chiesa di San Matteo.
La facciata del convento è articolata su un doppio ordine: nel primo si aprono i vani bottega ed il portico, che introduce al cortile; nel secondo appaiono una serie di finestre ed un balcone centrale arricchito da una ringhiera in ferro battuto. Sotto alcune finestre è scolpita la Croce dei Cavalieri di Malta (i Carmelitani appartenevano infatti alla provincia religiosa di Gerusalemme). Il cortile è stato vittima di rimaneggiamenti, solo il lato meridionale e quello settentrionale hanno conservato l'aspetto originario. Sui due lati si trovano due logge sovrastate da una nicchia che ospita la statua della Madonna.